Don Fabrizio: O stella, o fedele Stella. Quando ti deciderai a darmi un appuntamento meno effimero, lontano da tutto? Nella tua regione di perenne certezza.
Don Calogero: (si sente un colpo di cannone)Bell’esercito, fa sul serio! È proprio quello che ci voleva. Per la Sicilia. Ora possiamo stare tranquilli.
Tancredi si è innamorato follemente di Angelica dopo averla vista ad un ballo. Angelica ricambia l’amore e tra i due c’è stato anche un bacio. Tancredi, mentre è in battaglia, scrive allo zio perchè chieda a suo nome la mano di Angelica al padre, Don Calogero
Don Fabrizio: Mettiamo le carte in tavola e non facciamo tante storie per un semplice bacio. Ricordate che sono io che l’ho fatta chiamare!
Don Calogero: Certo, certo.
Don Fabrizio: Io volevo comunicarvi una lettera. Scritta da mio nipote. Che è arrivata ieri sera, anzi stanotte, per essere precisi. In essa egli dichiara la sua passione per la signorina vostra figlia. E mi incarica di chiedervi, ufficialmente, la mano della signorina Angelica. Ora tocca a voi dichiarare le vostre intenzioni.
Don Calogero: Scusatemi. Principe. La bella sorpresa mi aveva tolto la parola. Io conosco quello che avviene nel cuore, nella mente di Angelica e credo di poter dire che l’affetto di don Tancredi che tanto ci onora tutti è sinceramente ricambiato.
Padre Pirrone: Noi invochiamo la protezione di Dio su queste nozze. La vostra gioia è diventata la mia, eccellenza. Bravo, bravo. (guardando il barometro) Si mette al brutto.
Don Fabrizio: Don Calogero, non c’è nessun bisogno che io vi dica quanto sia illustre la famiglia Falconeri. Venuta in Sicilia con Carlo d’Angiò. Continuò a fiorire sotto gli Aragonesi, gli Spagnoli, i Borboni anche. Sempre che mi sia permesso a nominarli in vostra presenza. Furono pari del Regno, Grandi di Spagna, Cavalieri di Santiago. Ma non c’è nessun bisogno che io vi parli dell’antichità di casa Falconeri. E’ disgraziatamente anche inutile, perché lo sapete già, dirvi che le attuali condizioni economiche di mio nipote Tancredi non sono pari alla grandezza del suo nome. Mio cognato don Ferdinando, non era quello che si dice un padre preveggente. Le sue magnificenze di gran signore hanno gravemente scosso il patrimonio di mio nipote. Ma, Don Calogero, il risultato di tutti questi guai, di questi crepacuori è Tancredi. Queste cose noialtri le sappiamo bene. E forse impossibile essere così distinto, sensibile e affascinante come Tancredi, senza che i suoi maggiori abbiano dilapidato una dozzina di patrimoni. Almeno così è in Sicilia.
Don Calogero: Ma tutte queste cose le so. E molte altre. Ma l’amore, eccellenza. L’amore è tutto e io posso saperlo. Ora sentite. Io sono un uomo di mondo e voglio anch’io portare le mie carte in tavola. È giusto che i ragazzi conoscano quello su cui possano contare subito. Col contratto di matrimonio assegnerò a mia figlia il feudo di Settesoli. Ettari 1010. Tutto a frumento. Terre di prima qualità, fresche e ventilate e 500 ettari di vigneto e uliveto a di più dolce…
Il principe Solina ha un confronto con Padre Pirrone sulla posizione della Chiesa rispetto alla rivoluzione di Garibaldi
Don Fabrizio: Ho fatto importanti scoperte politiche. Sapete che succede nel nostro Paese? Niente succede, niente, solo un inavvertibile sostituzione di ceti. Il ceto medio non vuole distruggerci, ma vuole solo prendere il nostro posto con le maniere più dolci, mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati. E poi tutto può restare com’è. Capite bene che il nostro è il paese degli accomodamenti.
Padre Pirrone: In poche parole, voi, signori, vi mettete d’accordo con i liberali, addirittura con i massoni, a spese nostre. Sì, a spese della Chiesa, perché è chiaro che tutti i nostri beni, quei beni che sono patrimonio dei poveri, verranno arraffati e malamente divisi tra i caporioni più impudenti. E dopo. Chi sfamerà quella moltitudine di infelici che ancora oggi la Chiesa sostenta e guida? Come si farà allora per placare quelle turbe di disperati? Ve lo dirò io, eccellenza. Si comincerà col dar loro in pasto prima una porzione, poi un’altra, e alla fine l’intero delle vostre terre. Nostro Signore guariva i ciechi dal corpo, ma i ciechi di spirito dove finiranno?
Don Fabrizio: Non siamo ciechi di spirito, caro Padre, ma solamente esseri umani in un mondo in piena trasformazione, che dovremmo fare? Alla Chiesa è stata fatta esplicita promessa di immortalità. A noi come classe sociale no. Per noi un palliativo che ci permetta di durare ancora 100 anni equivale all’eternità. Al di là di quanto possiamo accarezzare con le nostre mani, noi non abbiamo obblighi. La Chiesa sì, sì, lei deve averne perché è destinata a non morire. Nella sua disperazione è implicito il conforto. Credete voi, padre, che semmai un giorno la Chiesa potesse salvarsi sacrificando noi esiterebbe a farlo? Non esiterebbe e farebbe bene.
Il governo piemontese invia il cavaliere Aimone de Chevalley per invitare il Principe Solina a diventare senatore del regno.
Don Fabrizio: Sentite, Chevalley. Sono molto grato al Governo di aver pensato a me per il Senato. Se si trattasse di un semplice titolo d’onore da scrivere sulla carta da visita, con piacere sarei pronto ad accettare. Ma così no, non posso accettare.
Aimone de Chevalley: Principe…
Don Fabrizio: Abbiate pazienza. Sono un esponente della vecchia classe fatalmente compromesso con il passato regime e a questo legato da vincoli di decenza se non di affetto. La mia è un’infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due. E per di più io sono completamente senza illusioni. Che se ne farebbe il Senato di me, di un inesperto legislatore cui manca la facoltà di ingannare se stesso, essenziale requisito per chi voglia guidare gli altri. No, in politica non porgerei un dito: me lo morderebbero!
Aimone de Chevalley: Principe. Non posso crederlo. Ma proprio sul serio, lei rifiuta di fare il possibile per alleviare lo stato di povertà materiale e di cieca miseria morale in cui giace il suo stesso popolo.
Don Fabrizio: Siamo vecchi, Chevalley, molto vecchi. Sono almeno 25 secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche e eterogenee civiltà, tutte venute da fuori. Nessuna fatta da noi, nessuna che sia germogliata qui. Da 2500 anni non siamo nient’altro che una colonia. O non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo molto stanchi, svuotati, spenti.
Aimone de Chevalley: Ma Principe, tutto questo adesso è finito. La Sicilia non è più una terra di conquista, ormai, ma libera parte di un libero Stato.
Don Fabrizio: L’intenzione è buona. Però arriva tardi. Il sonno, caro Chevalley, un lungo sonno, questo è ciò che i siciliani vogliono. Ed essi odieranno sempre tutti quelli che vorranno svegliarli, sia pure per portar loro i più meravigliosi doni. E detto tra noi, io dubito sinceramente che il Nuovo Regno abbia molti regali per noi nel suo bagaglio. Da noi ogni manifestazione, anche la più violenta, è un’aspirazione all’oblio. La nostra sensualità, è desiderio di oblio, le schioppettate, le coltellate nostre è desiderio di morte, la nostra pigrizia, la penetrante dolcezza dei nostri sorbetti, desiderio di voluttuosa immobilità, cioè, ancora di morte.
Aimone de Chevalley: Principe non le sembra di esagerare? Io stesso ho conosciuto a Torino dei siciliani che sembravano tutt’altro che dormiglioni.
Don Fabrizio: Non mi sono spiegato bene, mi dispiace, Chevalley, ho detto Siciliani m dovevo dire Sicilia. In questo ambiente la violenza del paesaggio, la crudeltà del clima, la continua tensione in ogni cosa.
Aimone de Chevalley: Il clima si vince, il paesaggio si può, si può modificare, il ricordo dei cattivi governi si cancella. Io sono certo che i siciliani vorranno migliorare.
Don Fabrizio: Non nego che alcuni siciliani trasportati fuori dell’isola possano riuscire a svegliarsi, ma devono partire molto giovani. A vent’anni è già tardi, la crosta si è formata.
Aimone de Chevalley: Ma se gli uomini onesti come lei si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, appunto, ai Sebara e tutto sarà di nuovo come prima per altri secoli. Ascolti la sua coscienza Principe e non le orgogliose verità che ha detto. Principe. La prego, cerchi di collaborare.
Don Fabrizio: Siete un gentiluomo, Chevalley, e considero un privilegio avervi conosciuto. Voi avete ragione in tutto, tranne quando dite che i siciliani certo vorranno migliorare. Non vorranno mai migliorare perché si considerano perfetti. La vanità in loro è più forte della miseria. Ma sedete un momento. Voglio raccontarvi un fatto. Pochi giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo, alcuni ufficiali di marina inglesi in servizio sulle navi in rada, mi chiesero di salire sulla terrazza della mia casa, da dove agevolmente si può vedere tutta la cerchia dei monti intorno alla città. Rimasero estasiati da quel panorama, ma mi confessarono tutto il loro stupore per lo squallore, per il sudiciume delle strade di accesso. Non provai a spiegare loro come ho tentato con voi, che una cosa era derivata dall’altra. Uno degli ufficiali chiese: “ma questi garibaldini che vengono a fare realmente in Sicilia?” “Vengono a insegnarci le buone creanze”, risposi in inglese, “ma non ci riusciranno. Perché noi siamo dei.” Risero, ma non credo che capissero.
Il nipote del principe, Tancredi Falconeri, decide di seguire Garibaldi un pò per entusiasmo ed un pò per opportunismo
Don Fabrizio: Perché sei vestito così? Che succede? Un ballo in maschera di mattina.
Tancredi: Parto fra poco. Parto fra un’ora. Sono venuto a salutarti.
Don Fabrizio: Perché? Dove vai? Non un duello.
Tancredi: Sì, un gran duello. Un duello con il re. Con Franceschiello. Vado nelle montagne, a Ficuzza. Si preparano grandi cose e io non voglio restare a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito.
Don Fabrizio: Sei pazzo a metterti con quelli. Sono mafiosi, tutti imbroglioni. Un Falconeri sta con noi per il Re.
Tancredi: Per il re? Certo. Ma quale re? L’hai detto tante volte pure tu. Se fosse ancora vivo il re Ferdinando. Ma Franceschiello, Dio guardi! No, zio, no!
Don Fabrizio: Perché tu credi che il piemontese, quello che chiamano il galantuomo, sarà molto meglio? Dialetto torinese invece che napoletano. Tutto qui.
Tancredi: E allora che ne diresti della Repubblica di don Peppino Mazzini?
Don Fabrizio: Ah!
Tancredi: Credimi Zione, se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la Repubblica in quattro e quattr’otto. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?
Garibaldi è sbarcato in Sicilia e la tranquilla monotonia della vita del Principe Salina è minacciata.
Don Fabrizio Salina: Perchè tutta sta confusione? Che è successo? Parla!
maggiordomo: Eccellenza, vogliate perdonare! È stato trovato un soldato morto nel giardino.
Don Fabrizio: Che cosa?
maggiordomo: Ci sono dei gravi disordini giù in città e dappertutto. Hanno portato questa lettera da parte del Duca di Baviera. Dice che è molto urgente.
Don Fabrizio: (legge la lettera del Duca di Baviera)Caro Fabrizio, leggi le terribili notizie sul giornale. I piemontesi sono sbarcati. Siamo perduti. Stanotte io con tutta la famiglia andremo a rifugiarci sui legni inglesi all’ancora. Certo, farai lo stesso anche tu. Dio salvi il nostro re. Ti abbraccio.
Che coniglio!
(Leggendo il giornale) Un atto di pirateria veniva consumato l’11 maggio mercé lo sbarco di gente armata alla Marina di Marsala. Ulteriori rapporti hanno chiarito essere la banda dei circa 800 e comandata da Garibaldi. Quando quei briganti sbarcarono evitarono con ogni cura lo scontro con le regie truppe, dirigendosi a quanto si dice su Castelvetrano, minacciando i pacifici cittadini e non risparmiando rapine e devastazioni.
Maria Stella Salina di Corbara: Garibaldi!
Don Fabrizio: Paolo, da stasera andrai ad abitare a palazzo a Palermo. Case vuote in questo momento sono case perdute.